I memi e lo sviluppo del cervello

di Susan Blackmore*

KOS 211, aprile 2003, pp. 56-64.

Translation of Blackmore,S. 2001 Evolution and memes: The human brain as a selective imitation device. Cybernetics and Systems, 32, 225-255.


Quando i nostri antenati incominciarono ad imitarsi gli uni con gli altri diedero vita ad una nuova forma di replicatore:

il meme. I memi si propagano saltando di cervello in cervello attraverso un processo che può essere chiamato, in senso lato, imitazione. Questi memi modificarono l’ambiente in cui i geni venivano selezionati, portando a dei cambiamenti nel

cervello umano e nel tratto vocale, fino ad arrivare allo sviluppo del  cervello che oggi tutti noi conosciamo

L’essenza di tutti i processi evolutivi spesso risiede nel fatto che quando una certa tipologia di informazione viene copiata vengono spesso introdotti degli errori su cui poi agisce un processo di tipo selettivo. Come Darwin (1859) fece notare per primo, se esistono delle creature che variano e si verifica una selezione tale per cui solo alcune di esse sopravvivono, e se questi sopravvissuti sono in grado di trasmettere questo quid che permette loro di sopravvivere alla discendenza, allora questa discedenza sarà maggiormente adattata a questo particolare ambiente in cui la selezione ha avuto luogo più di quanto non lo fossero i suoi progenitori. È l’inevitabilità di questo processo che lo rende uno strumento così potentemente esplicativo. In presenza dei tre requisiti – variazione, selezione, ereditarietà – allora si ha necessariamente l’evoluzione. È questa la ragione per cui Dennett chiama questo processo “algoritmo evolutivo”. È una procedura irrazionale che produce “ordine dal caos senza l’aiuto della mente” (Dennett, 1995). L’algoritmo dipende da qualcosa che viene copiato e che Dawkins chiama “replicatore”. Un replicatore può dunque essere definito come qualsiasi unità di informazione che viene copiata con variazioni o errori e la cui natura influenza la sua stessa probabilità di replicazione (Dawkins, 1976). Alternativamente, esso può essere considerato come un’informazione che viene sottoposta all’algoritmo evolutivo (Dennett, 1995) o che è soggetta ad una cieca variazione con conservazione selettiva (Campbell, 1960) oppure come un’entità che trasmette la sua struttura ampiamente intatta in replicazioni successive (Hull, 1988).

Il replicatore più familiare è il gene. Nei sistemi biologici, i geni sono “impacchettati” con modalità complesse all’interno di strutture più grandi quali gli organismi. Dawkins mette in contrasto i geni in quanto replicatori con i veicoli che li portano in giro e che incidono sulla loro sopravvivenza. Hull preferisce invece il termine “interattori” per quelle entità che interagiscono come complessi coesivi con l’ambiente circostante e che fanno sì che la replicazione sia un processo differenziale (Hull, 1988). In entrambi i casi, la selezione può avvenire sia a livello dell’organismo che presumibilmente anche ad altri livelli, ma il replicatore rappresenta l’informazione che viene copiata ragionevolmente intatta attraverso una serie di replicazioni successive, il beneficiario ultimo del processo evolutivo. Si noti che il concetto di replicatore non è limitato alla biologia. Ovunque ci sia un processo evolutivo allora ci sarà un replicatore. Questo è il principio di base di ciò che viene conosciuto come “darwinismo universale” (Dawkins, 1976; Plotkin, 1993), in cui i principi darwiniani vengono applicati a tutti i sistemi in grado di evolversi. Alcuni candidati al ruolo di sistemi evolutivi con i loro propri replicatori sono il sistema immunitario, lo sviluppo del sistema nervoso, l’apprendimento per tentativi ed errori (Calvin, 1996; Edelman, 1989; Plotkin, 1993; Skinner, 1953).

Il nuovo replicatore a cui mi riferisco in questo lavoro è il “meme”, termine coniato da Dawkins nel 1976. La sua intenzione era quella di illustrare i principi del darwinismo universale grazie alla proposta di un nuovo esempio di replicatore diverso dal gene. Egli dimostrò che ogni volta che delle capacità, delle abitudini o dei comportamenti vengono copiati da una persona all’altra per imitazione, è all’opera un nuovo replicatore. “Abbiamo bisogno di un nome per un nuovo replicatore, un sostantivo che comunichi l’idea di ‘unità di trasmissione culturale’, o di unità di imitazione. ‘Mimeme’ viene da un’appropriata radice greca, ma ciò che voglio è un monosillabo che suoni un po’ come ‘gene’. Spero che i miei amici classicisti mi perdoneranno se abbrevio mimeme con meme. … Esempi di memi sono le melodie, le idee, le frasi, le mode nel vestire, i modi di modellare vasi o costruire archi. Come i geni si propagano nel pool genetico balzando di corpo in corpo attraverso spermatozoi o cellule uovo, così i memi si propagano nel pool memetico saltando di cervello in cervello attraverso un processo che, in senso lato, può essere chiamato imitazione” (Dawkins, 1976).

Dawkins spiega che per questo nuovo termine aveva intenzioni modeste ed interamente negative. Il suo obiettivo era quello di evitare che i suoi lettori pensassero che il gene fosse necessariamente “lo scopo supremo dell’evoluzione… il beneficiario di tutti i processi di adattamento” (Dawkins, 1999) e di chiarire che l’unità fondamentale della selezione naturale è il replicatore, un qualsiasi tipo di replicatore. Comunque, così facendo egli gettò le fondamenta della memetica. Dawkins paragonò alcuni memi ai parassiti che infettano un ospite e alle religioni che egli definì “virus della mente” (Dawkins, 1993) e indicò come alcuni memi, aiutandosi reciprocamente, si radunino in gruppi – i memeplessi – spesso riproducendosi a spese del proprio ospite. Successivamente, Dennett utilizzò il concetto di meme per spiegare l’algoritmo evolutivo e per discutere la personalità e la coscienza in termini di memi, sottolineando l’importanza della domanda: “Cui bono?” o “A chi giova?”. Il beneficiario ultimo di un processo evolutivo, sostenne, è qualunque cosa venga copiato, cioè il replicatore. Qualsiasi altra cosa accada, qualsiasi adattamento è ultimamente nell’interesse dei replicatori stessi.

Questa è un’idea centrale in quella che si è fatta conoscere come la teoria del gene egoista, ma è importante trasferire questa nozione quando si ha a che fare con un nuovo tipo di replicatore. Se i memi sono realmente dei replicatori, allora dobbiamo aspettarci che nell’evoluzione umana avvengano cose che non vanno a vantaggio né dei geni, né della popolazione che li porta, ma a vantaggio dei memi che quella popolazione ha copiato.

Ciò potrebbe costituire una grossa differenza ed è la ragione per la quale affermo che dalla comparsa dei memi, il processo evolutivo è completamente cambiato. Quando è successo? Se si definiscono i memi come l’informazione copiata attraverso l’imitazione, allora questo cambiamento è avvenuto con la comparsa dell’imitazione.

La definizione di meme

L’Oxford English Dictionary definisce i memi in questo modo: “Meme, biol. (abbreviato per mimeme… ciò che è imitato, da gene), elemento di una cultura che può trasmettersi per via non genetica, specie per imitazione”. È una definizione evidentemente costruita sull’originale concezione di Dawkins e, fino a un certo punto, questa può funzionare. Tuttavia, ci sono molte altre definizioni di meme, formali e informali, e si continua a discutere su quale sia la migliore. Queste definizioni differiscono essenzialmente su due punti principali: 1) se i memi esistono solo all’interno del cervello o anche al di fuori di esso e 2) sulle modalità attraverso le quali i memi possono venire trasmessi. Il modo in cui i memi vengono definiti è decisivo, non solo per lo sviluppo futuro della memetica come scienza, ma anche per la nostra comprensione dei processi evolutivi sia nei sistemi naturali sia in quelli artificiali. A mio modo di vedere ciò che conta è una definizione che tenga conto del fatto che il meme come replicatore partecipa ad un nuovo processo di tipo evolutivo. È su questo modello che giudico le diverse definizioni concorrenti, e la mia conclusione è che i memi sono sia all’interno sia all’esterno del cervello e che vengono trasmessi per imitazione. Il punto centrale dei memi è che devono essere considerati come informazione che viene copiata in un processo evolutivo, cioè con variazione e selezione. Data la complessità della vita umana, l’informazione può essere copiata in una miriade di modi. Oltre a spingere noi stessi in ogni possibile confusione ulteriore, prestiamo un cattivo servizio al concetto fondamentale di meme se tentiamo di circoscriverlo a quello di informazione dimorante solo nel cervello della gente. Per questo motivo, sono d’accordo con Dennett, Wilkins, Durham e Dawkins, che non limitano i memi all’ambito della mente. L’informazione contenuta in questo articolo vale come meme quando è nella mia o nella vostra mente, quando sta nel mio computer o sulle pagine di un giornale, oppure quando corre veloce per il mondo via cavo o rimbalzando tra i satelliti, poiché in qualsiasi di queste forme è potenzialmente disponibile per essere copiata e può quindi prendere parte a un processo evolutivo.

Come vengono replicati i memi? La definizione del dizionario attribuisce una posizione centrale all’imitazione, sia nella spiegazione dell’etimologia della parola “meme”, sia riguardo al modo in cui i memi vengono diffusi. Ciò segue chiaramente la definizione originale di Dawkins, il quale, però, fu prudente nel parlare di imitazione “in senso lato”. Presumibilmente, egli intendeva includere molti processi che non ci fanno pensare all’imitazione, ma che ne dipendono, come l’insegnamento diretto, l’istruzione verbale, l’apprendimento tramite lettura e così via. Tutte queste azioni richiedono una capacità di imitazione. Possiamo avere qualche perplessità a chiamare “imitazione” alcune di queste pratiche complesse, tuttavia esse si inseriscono chiaramente nell’algoritmo evolutivo. La variazione si introduce sia per la degenerazione dovuta ai difetti della memoria e della comunicazione umane, sia per la ricombinazione creativa di differenti memi. La selezione si è imposta attraverso i limiti del tempo, delle velocità di trasmissione, della memoria o di altre tipologie di spazi di archiviazione.

Apprendimento

L’apprendimento è comunemente suddiviso in apprendimento individuale e sociale. Nella forma individuale – dove sono inclusi il condizionamento classico, il condizionamento operante, l’acquisizione di capacità motorie e l’apprendimento spaziale – non c’è la copia di informazione da un animale all’altro. Quando un topo impara a premere una leva per ottenere una ricompensa, quando un gatto impara dov’è conservato il cibo o un bambino apprende ad andare in skateboard, l’apprendimento avviene solo a livello individuale e non può essere trasmesso.

Forse tale apprendimento implica la copia e la selezione di un replicatore all’interno del cervello individuale (Calvin, 1996; Edelman, 1989), ma non implica una copia tra individui.

Nell’apprendimento sociale, c’è il coinvolgimento di un secondo individuo, ma in ruoli diversi. Le varie tipologie sono costituite dall’emulazione dell’obiettivo, dalla messa in rilievo dello stimolo, dalla messa in rilievo locale e dall’imitazione vera e propria. La domanda a cui voglio rispondere è quale di essi possa stare alla base di un nuovo processo evolutivo. Nell’emulazione, chi apprende osserva un altro che raggiunge qualche premio e tenta di ottenerlo anche lui, utilizzando il processo di apprendimento individuale e possibilmente raggiungendo l’obiettivo in un modo abbastanza diverso dal primo individuo (Tomasello, 1993). Questo è l’apprendimento sociale, poiché sono coinvolti due individui, ma il secondo ha solo imparato un nuovo posto dove cercare il cibo. Non c’è niente che viene copiato da un animale all’altro in modo tale da permettere la copia delle varianti e la sopravvivenza selettiva di alcune varianti sulle altre. Non c’è un nuovo processo evolutivo né un nuovo replicatore. Nella messa in rilievo dello stimolo, l’attenzione di chi apprende viene indirizzata a un particolare oggetto o caratteristica dell’ambiente dal comportamento di un altro individuo. Nella messa in rilievo locale, colui che apprende è attirato da un luogo o da una situazione dal comportamento di un altro, come nel caso dei conigli, che imparano gli uni dagli altri a non avere paura di stare ai bordi delle linee ferroviarie nonostante il rumore dei treni.

Se questa è la corretta spiegazione per la diffusione di questi comportamenti, possiamo vedere che non c’è alcun nuovo processo evolutivo e nessun nuovo replicatore, poiché non c’è niente che viene copiato da un individuo all’altro con variazione e selezione. Ciò significa che non può verificarsi la selezione cumulativa di varianti più efficaci. Analogamente, Boyd e Richardson (in press) sostengono che questo tipo di apprendimento sociale non tiene conto del cambiamento culturale cumulativo. La maggior parte delle tradizioni comportamentali specifiche di una popolazione che sono state studiate sembrano essere di questo tipo, compresi i siti per il nido, i percorsi migratori, i canti e l’utilizzo di strumenti, in specie come i lupi, gli elefanti, le scimmie, le farfalle monarca e molti tipi di uccelli (Bonner, 1980).

Imitazione

La vera imitazione viene definita in modo più restrittivo, sebbene non ci sia ancora un forte consenso sul suo significato (si vedano: Zentall, 1996; Whiten, 1999). Thorndike (1898), definì originariamente l’imitazione come “l’apprendimento di un atto vedendolo compiere”. Ciò significa che un animale deve acquisire un comportamento insolito da un altro, escludendo così il contagio precedentemente citato. Whiten e Ham (1992), la cui definizione viene largamente impiegata, definiscono l’imitazione come l’atto di apprendere qualche elemento della forma di un comportamento da un altro individuo. Analogamente, Heyes (1993), distingue tra la vera imitazione – apprendimento di qualcosa riguardo la forma di comportamento tramite l’osservazione degli altri – dall’apprendimento sociale – l’apprendimento relativo all’ambiente attraverso l’osservazione degli altri, escludendo, in tal modo, la messa in rilievo locale e dello stimolo. La vera imitazione è molto più rara dell’apprendimento individuale e di altre forme di apprendimento sociale. Gli uomini sono molto bravi ad imitare, a cominciare dalla nascita, e provano soddisfazione nel farlo. Meltzoff, che ha studiato l’imitazione nei bambini per più di venti anni, chiama gli uomini i generalisti imitativi perfetti (Meltzoff, 1996), sebbene alcuni dei più precoci comportamenti da lui studiati, come il “fare la lingua”, possa ragionevolmente essere chiamato contagio piuttosto che vera imitazione. Quanto sia rara l’imitazione non è ancora stato definito. Non c’è dubbio che alcuni uccelli imparino a cantare certe melodie per imitazione e che i delfini siano capaci di imitare i suoni come le azioni (Bauer, Johnson, 1994; Reiss, McCowan, 1993). È stata dimostrata l’imitazione nei pappagalli grigi e nelle foche comuni. Tuttavia, c’è molta discussione sulle capacità dei primati non umani e di altri mammiferi come i topi e gli elefanti (Byrne, Russon, 1998, Heye, Galef, 1996; Tomasello et al., 1993; Whiten, 1999).

Sull’imitazione sono stati condotti molti esperimenti e benché non siano stati direttamente centrati sulla domanda relativa all’implicazione di un nuovo replicatore, possono suggerirci una direzione per la risposta. Per esempio, alcuni studi hanno tentato di scoprire, per diversi animali e per i bambini, quanto venga copiato della forma di un comportamento. Nel metodo delle due azioni, un dimostratore utilizza uno dei due possibili modi per ottenere un risultato, come, ad esempio, l’apertura di un contenitore appositamente progettato, mentre colui che apprende viene osservato per capire quale metodo adopererà (Whiten et al., 1996; Zentall, 1996). A seconda della strada scelta dall’animale, l’utilizzo di un altro metodo o la copia dello stesso, si tratterà di emulazione dell’obiettivo oppure di vera e propria imitazione. Attraverso questo tipo di esperimento, si è dimostrata l’imitazione nei pappagallini, nei piccioni e nei topi così come negli scimpanzé acculturati e nei bambini (Heyes, Galef, 1996). Nei cebi cappuccini, è appena stato scoperto che mostrano una limitata capacità di copiare un metodo che sia stato loro mostrato (Custance et al., 1999).

Altri studi hanno tentato di comprendere se chi apprende è in grado di copiare una sequenza di azioni e la loro struttura gerarchica (Whiten, 1999). Byrne e Russon (1998) distinguono un’imitazione a livello dell’azione, in cui una sequenza di azioni viene copiata nel dettaglio, dall’imitazione a livello del programma, in cui vengono copiati il piano strutturale e la disposizione gerarchica di un programma comportamentale. Essi sostengono che altre grandi scimmie possono essere capaci di un’imitazione a livello del programma, sebbene gli uomini possiedano una profondità gerarchica molto maggiore. Questi studi sono importanti per capire l’imitazione, ma non rispondono direttamente alla domanda che qui ci interessa, e cioè: “L’imitazione può implicare un processo evolutivo? È coinvolto un nuovo replicatore?”. Per la risposta abbiamo bisogno di nuove ricerche volte a scoprire se, quando hanno luogo l’imitazione o altri tipi di apprendimento sociale, entri in gioco un nuovo processo evolutivo. Innanzitutto, c’è il problema della precisione della copia. Come abbiamo visto, il replicatore viene definito come un’entità che passa per successive replicazioni mantenendo pressoché intatta la sua struttura. Dobbiamo quindi chiederci se il comportamento o l’informazione vengono trasmessi intatti attraverso molte replicazioni. Per esempio, in libertà, c’è la prova dell’utilizzo di strumenti, di tecniche di grooming o di altri comportamenti socialmente appresi che vengono trasmessi attraverso una serie di individui, piuttosto che tramite molti che imparano da un individuo, ma che non trasmettono a loro volta quelle capacità? Nelle situazioni sperimentali, un animale potrebbe osservarne un altro e poi diventare da modello per un terzo e così di seguito, come nel telefono senza fili. Non potremmo attenderci una precisione di copia molto alta, ma, a meno che la capacità venga trasmessa in modo riconoscibile attraverso più di una replicazione, allora non abbiamo a che fare con un nuovo replicatore, cioè non c’è bisogno del concetto di meme. In secondo luogo, ci sono la variazione e la selezione? Gli esempi proposti da Whiten e altri (1999) suggeriscono che ci può essere. Potremmo cercare altri esempi in cui le capacità vengono trasmesse a molti individui, che differiscono per il modo preciso con cui eseguono una data capacità e alcune varianti vengono trasmesse più di frequente e in modo più attendibile. Questa, infatti, è la base della cultura cumulativa. Alcuni esperimenti potrebbero essere strutturati in modo da identificare lo stesso processo che avviene in situazioni artificiali. Studi di questo genere ci permetterebbero di dire quali processi – e in quali specie – possano stare alla base di un processo evolutivo con un nuovo replicatore. Solo a questo punto potremo applicare utilmente il concetto di meme.

Se questi studi venissero condotti e si scoprisse che, al contrario di altri tipi di apprendimento sociale, ciò che abbiamo deciso di chiamare imitazione può sostenere un’evoluzione cumulativa, allora potremmo facilmente collegare le definizioni di meme e di imitazione, cosicché può essere considerato meme qualsiasi cosa venga trasmessa per imitazione e ogni volta che c’è imitazione c’è il meme. Senza queste ricerche, la nostra posizione non è giustificata e qualcuno potrebbe ritenerla non adeguata alla nostra attuale comprensione dell’imitazione. Ciononostante, per gli scopi di questo articolo, questo è ciò che propongo. Il vantaggio è che mi permette di usare una parola, “imitazione”, per descrivere un processo tramite il quale si sono trasmessi i memi.

Ciò mi consente di trarre le seguenti conclusioni. L’imitazione è limitata a pochissime specie e gli uomini sembrano gli unici in grado di imitare un ampio spettro di suoni e di comportamenti. Questa capacità per un’imitazione ampia e generalizzata deve essere emersa ad un certo punto nella nostra storia evolutiva. Voglio ora indagare sulle conseguenze di questa transizione e su alcuni dei processi coevolutivi coinvolti dal momento in cui l’evoluzione umana è stata regolata da due replicatori invece che da uno. Una conseguenza fu il rapido aumento delle dimensioni del cervello.

Il grande cervello umano

Gli uomini possiedono capacità che sembrano non avere relazioni con il nostro supposto passato evolutivo da cacciatori-contadini, come ad esempio la musica e l’arte, la scienza e la matematica, il gioco degli scacchi e la riflessione sulle nostre origini evolutive. Come afferma Cronin (1991), abbiamo un cervello “eccedente le esigenze, eccedente i bisogni adattivi”. Questo problema porta Wallace a sostenere, al contrario di Darwin, che solo gli uomini hanno una natura spirituale e intellettuale data da Dio (Cronin, 1991). Anche Williams lottò con il problema dell’“ipertrofia cerebrale umana” ed era restio ad accettare l’idea che le capacità mentali avanzate sono state sempre favorite dalla selezione o che i geni lasciano un numero maggiore di figli.

Gli uomini possiedono un quoziente di encefalizzazione di circa 3 rispetto agli altri primati. La crescita ebbe probabilmente inizio negli australopitechi 2,5 milioni di anni fa e si completò circa 100.000 anni fa, da quando tutti gli ominidi avevano cervelli grandi più o meno come i nostri (Leakey, 1994; Wills, 1993). Non solo il cervello è molto più grande di quello che era, ma sembra che si sia radicalmente riorganizzato durante un periodo che, in termini evolutivi, è molto breve. Le correlazioni legate alla struttura e alla dimensione del cervello sono state studiate in molte specie e sono complesse e non ancora ben comprese (Harvey, Krebs, 1990). Tuttavia, il cervello umano si distingue tra gli altri. Il problema è serio a causa dei costi, in termini energetici, molto alti per produrre un cervello così grande durante lo sviluppo e per mantenerlo funzionante nella vita adulta. Pinker (1994) si chiede: “Perché mai l’evoluzione ha selezionato per la grandezza del cervello, quell’organo bulboso e metabolicamente ingordo?… Qualsiasi selezione sulla dimensione del cervello avrebbe sicuramente favorito lo stupido”.

Le prime teorie che hanno spiegato le dimensioni del cervello hanno attribuito molta importanza alle pratiche della caccia e della ricerca del cibo, ma i tentativi di interpretazione non si sono fermati e teorie più recenti hanno enfatizzato la complessità e le esigenze dell’ambiente sociale (Barton, Dunbar, 1997). Gli scimpanzé vivono in complessi gruppi sociali ed è probabile che anche per i nostri antenati fosse così.

La creazione e la rottura di alleanze, la memorizzazione di “chi è chi” per conservare l’altruismo reciproco, e per la vittoria sugli altri, richiedono una buona memoria e una complessa e veloce capacità di prendere decisioni. L’“ipotesi machiavelliana” ritiene che l’inganno e l’intrigo nella vita sociale siano molto importanti e suggerisce che molto dell’intelligenza umana abbia un’origine sociale (Byrne, Whiten, 1998; Whiten, Byrne, 1997). Ci sono tre grosse differenze tra questa teoria e le precedenti. In primo luogo, questa teoria comporta un punto di svolta ben definito, l’avvento di una vera e propria imitazione che ha creato un nuovo replicatore. Da un lato ciò la distingue dalle altre teorie del cambiamento continuo come quelle fondate sul miglioramento delle tecniche di caccia e della raccolta del cibo o sull’importanza delle capacità sociali e dell’intelligenza machiavelliana. Dall’altro lato, essa è distinta da quelle che propongono un differente punto di svolta, come il modello dei tre stadi coevolutivi di Donald (1991) o l’ipotesi di Deacon (1997) secondo cui il punto di svolta avvenne con il superamento da parte dei nostri antenati della “soglia simbolica”. In secondo luogo, sia Donald sia Deacon attribuiscono molta importanza al simbolismo o alle rappresentazioni mentali nell’evoluzione umana. Anche altre teorie ritengono che ciò che rende così speciale la cultura umana è la sua natura simbolica. L’enfasi sul simbolismo e sulla rappresentazione non è necessaria nella teoria qui proposta. Che i comportamenti acquisiti attraverso l’imitazione – i memi – rappresentino o simbolizzino qualcosa è assolutamente irrilevante per il loro ruolo di replicatori. Ciò che importa è se sono replicati o meno.

In terzo luogo, non ha spazio per la metafora del guinzaglio della sociobiologia o per la convinzione, comune a quasi tutte le versioni relative alla coevoluzione gene-cultura, che l’ultimo fattore decisivo è la convenienza complessiva, cioè il vantaggio per i geni.

In questa teoria ci sono due replicatori e le loro relazioni possono assumere una posizione qualsiasi tra la cooperazione e la competitività. Più importante è il fatto che i memi competono con altri memi e producono un’evoluzione memetica, il cui risultato, poi, ha degli effetti sulla selezione dei geni.

Schematicamente, la teoria si può così riassumere: il punto di svolta nell’evoluzione degli ominidi avvenne quando i nostri antenati incominciarono a imitarsi gli uni gli altri, dando vita a un nuovo replicatore, il meme. I memi, poi, modificarono l’ambiente in cui i geni venivano selezionati e la direzione del cambiamento fu determinato dal risultato della selezione memetica. Tra le diverse conseguenze di questo cambiamento, il cervello umano e il tratto vocale furono ristrutturati per essere più adatti alla replicazione dei memi che si affermavano.

La coevoluzione dei replicatori e il loro meccanismo replicativo

La spinta memetica nello sviluppo del cervello può essere vista come l’esempio di un processo evolutivo più generale, e cioè, la coevoluzione di un replicatore insieme al meccanismo per la sua replicazione. Il meccanismo è semplicissimo. Per esempio, si immagini un brodo chimico in cui replicatori diversi convivano, alcuni con i loro coenzimi – o con altri sistemi replicativi – e altri senza. Quelli che producono il maggior numero di copie più stabili sommergeranno il resto e se ciò dipende dall’essere associato ad un migliore meccanismo replicativo, allora prospereranno sia il replicatore sia il relativo meccanismo di replicazione. Qualcosa di questo tipo deve essere accaduto sulla terra molto prima che l’rna e il dna eliminassero quasi ogni altro competitore (Maynard-Smith, Szathmáry, 1995). Il meccanismo di copia cellulare del dna è oggi così accurato e affidabile che tendiamo a dimenticare che deve essersi evoluto da qualcosa di più semplice. I memi non hanno avuto dietro a sé una storia così lunga. Il nuovo replicatore, secondo quanto afferma Dawkins (1976), “sta ancora vagando goffamente nel suo brodo primigenio… il brodo della cultura umana”. Tuttavia, vediamo accadere lo stesso processo generale che possiamo presumere sia accaduto un tempo con i geni: i memi e il loro meccanismo di replicazione stanno migliorandosi a vicenda. La dimensione del cervello è solo il primo gradino. Devono essercene molti altri. In ogni caso, memi di alta qualità ottengono risultati migliori dei memi di bassa qualità e il loro predominio favorisce la sopravvivenza del meccanismo che li replica. Ciò richiama la nostra attenzione sulla questione relativa a quali siano i memi di qualità. Dawkins (1976) suggerisce la precisione, la fecondità e la longevità. Questa è la base della mia argomentazione sull’origine del linguaggio (Blackmore, 1999) che schematicamente è la seguente. Il linguaggio è un buon metodo per la creazione di memi altamente precisi e fecondi. Il suono trasporta meglio degli stimoli visuali e a un maggior numero di persone alla volta. I suoni racchiusi in parole possono essere copiati con una precisione maggiore dei suoni che variano continuamente. I suoni che utilizzano l’ordine delle parole aprono un numero maggiore di spazi da occupare per i memi e così via. In una comunità di persone che copiano i suoni gli uni dagli altri, l’evoluzione memetica garantirà che solo i suoni migliori sopravvivranno. La spinta memetica, poi, favorisce i cervelli e i sistemi vocali che copiano quei memi nel modo migliore. È questa la ragione per cui il nostro cervello e il nostro corpo si è adattato a produrre il linguaggio. In questa teoria, la funzione della capacità linguistica non è prima di tutto biologica, ma memetica.

Il meccanismo di copia si è evoluto contemporaneamente ai memi che esso copia.

Lo stesso argomento spiega la ragione per cui il nostro cervello sembra particolarmente adatto ad assorbire alcuni tipi di meme piuttosto che altri. Per esempio, molta gente ritiene difficili la matematica e la lettura, mentre stima più facili l’adottare dei rituali religiosi, il raccontare storie e il cantare. Queste tematiche sono simili a un importante argomento di psicologia evolutiva. È diventato sempre più chiaro che il cervello umano non è un semplice dispositivo di apprendimento generico, ma si è adattato ad apprendere alcune cose più prontamente di altre, sulla base di un vantaggio genetico degli ambienti del passato (Pinker, 1997; Tooby, Cosmides, 1992). L’equivalente per i memi è che il cervello non è una macchina imitativa generica, ma è stata affinata dall’evoluzione genetica e memetica per copiare bene alcuni memi e male altri memi. I canti, le storie e i riti hanno preso a lungo parte nella coevoluzione gene-meme, mentre la matematica e la lettura sono relativamente dei nuovi acquisti, che utilizzano meccanismi disegnati non espressamente per loro. Questi nuovi venuti hanno portato con sé ulteriori opportunità per migliorare i memi e, con ciò, ulteriori gradini nel progetto del meccanismo di replicazione, ma questa volta al di fuori del cervello. La scrittura ha migliorato la longevità dei memi del linguaggio e ha garantito il successo di lavagne, penne, matite e librerie. La stampa ha aumentato la fecondità e la diffusione dei libri stampati, ha garantito la sopravvivenza delle presse tipografiche, delle fabbriche e dei negozi di libri. Le comunicazioni su strada, su ferrovia, via nave e via aerea sono servite per diffondere più rapidamente un maggior numero di memi e questi, a loro volta, hanno favorito la creazione di mezzi di trasporto sempre più efficienti.

Con il miglioramento attuale dei mezzi di comunicazione, possiamo vedere l’altissima velocità dello sviluppo di questo processo.

Il cellulare è un buon esempio. Una decina di anni fa, pochi avrebbero previsto questa penetrazione fenomenale. Da privilegio destinato ai ricchi uomini d’affari è diventato un accessorio comune per gli adolescenti. Perché? Il vantaggio biologico è a malapena rilevante e il vantaggio per gli individui è discutibile, dal momento che i cellulari diminuiscono la riservatezza e aumentano lo stress e l’inquinamento acustico. Dal punto di vista dei memi, invece, è perfettamente sensato. Con il cellulare, la gente può trasmettere un maggior numero di memi che con un telefono fisso. Con la loro diffusione, i memi portano con sé l’idea dell’utilizzo del cellulare, che prospera insieme con i memi che trasmette. Ciò suggerisce la verificabile predizione che il successo o il fallimento delle nuove tecnologie è strettamente correlato con la loro efficacia come dispositivi di trasmissione dei memi.

Un altro principio generale è il passaggio da ciò che ho chiamato “copia-il-prodotto”a ciò che chiamiamo “copia-l’istruzione” (Blackmore, 1999). In termini di precisione, fecondità e longevità è preferibile copiare le istruzioni per costruire qualcosa piuttosto che copiare il prodotto stesso. Copiare un prodotto – come una ruota, una danza o una storia – inevitabilmente porta all’introduzione di errori e quegli errori, in una copia sequenziale, sono cumulativi. Un processo di copia più preciso viene quindi realizzato dal copiare le istruzioni, soprattutto se possono essere facilmente copiate e immagazzinate con sicurezza. In questo caso, qualsiasi errore fatto durante la costruzione, riguarda solo un prodotto e non tutta la linea. Un’ulteriore riduzione nel tasso di errori può essere raggiunta grazie alla digitalizzazione delle istruzioni. Come afferma Dawkins (1996), questa è la ragione per cui i codici si sono evoluti sia nella biologia – sotto forma di codice genetico – sia nelle tecnologie umane come i telefoni, i sistemi hi-fi e i computer. Copiare le istruzioni porta anche a una maggiore fecondità poiché la stessa serie di istruzioni può essere utilizzata moltissime volte. Infine, molti prodotti, come le zuppe, i canti, la musica e i discorsi, sono necessariamente temporanei, mentre le istruzioni per produrli possono essere potenzialmente archiviate per sempre, sia nella memoria umana, sia in manufatti culturali. Ciò porta a pensare che copiare le istruzioni costituisca una strategia evolutiva migliore. Infatti, si tratta di un fatto empirico che, almeno in domini limitati, può essere provato. Ma, assumendo che ciò sia corretto, dovremmo trovare un passaggio da una modalità di copia all’altra lungo tutta l’evoluzione, poiché i prodotti di un sistema migliore hanno ottenuto migliori risultati di quelli del sistema inferiore. Questa potrebbe essere la ragione del fatto che oggi, in biologia, troviamo la distinzione tra genotipo e fenotipo, e perché l’eredita di tipo “lamarckiano” non avviene nelle specie sessualmente riproduttive.

Molte invenzioni umane possono essere lette come un passaggio dalla copia del prodotto alla copia dell’istruzione. Per esempio, la scrittura ha reso possibile ricreare sempre nuovamente le stesse storie, i miti e i contratti sociali a partire dalle stesse istruzioni archiviate. La stampa ha reso possibile l’archiviazione di caratteri tipografici che possono essere utilizzati per produrre molte copie dello stesso libro. Più recentemente, i prodotti ad alto contenuto tecnologico vengono realizzati con grande accuratezza a partire dalle istruzioni per costruirli e vediamo apparire dei sistemi che assomigliano molto ai genotipi e ai fenotipi. Per esempio, le istruzioni per archiviare e mostrare del testo nel programma Word sono fedelmente copiate ogni volta che questo viene installato in un nuovo computer – anche se non sempre si comportano allo stesso modo – ma sono i prodotti realizzati dagli utenti – lettere, libri e così via – che agiscono come dei fenotipi o interattori e il loro successo determinerà la quantità di copie di Word che verranno eseguite.

Tutti questi sono esempi di un principio evolutivo potente e generale. La conclusione è che i replicatori di alta qualità si diffondono a spese di quelli più scadenti, e così facendo diffondono anche il meccanismo di replicazione che rende possibile la loro copia. Detto più semplicemente, esiste una coevoluzione tra i replicatori e il loro meccanismo di replicazione. Non solo questo è il modo in cui evolve la tecnologia, ma è anche il modo con cui noi uomini siamo arrivati ad avere il nostro cervello così come lo conosciamo.   l

(Traduzione di Alessandro Baro

e adattamento di Antonio Malgaroli)

*Senior Lecturer in Psychology at the University of the West of England, Bristol

Questo articolo è stato pubblicato dall’autore per esteso. Si veda: Susan Blackmore, “Evolution and Memes: The Human Brain as a Selective Imitation Device”, in Cybernetics and Systems, Special Issue on Imitation in Natural and Artificial Systems, Chrystopher L. Nehaniv and Kerstin Dautenhahn (guest editors),

Vol 32:(1-2), Taylor and Francis, Philadelphia, PA, 2001, pp. 225-255.

Bibliografia

(to follow)